CATE BLANCHETT
Dalla sua una galleria di ruoli estremi. Tra i quali incede con regale bellezza, luminoso talento, e spiazzante sincerita’.
Succede di rado, ma quando accade, per lo spettatore e’ una esperienza elettrizzante. Assistere a una performance folgorante; un volto che fora lo schermo; la certezza che e’ nata una stella. Nel 1998, quando Cate Blanchett apparve in Elizabeth di Shekhar Kapur nei panni della regina Elisabetta I, la intensita’ della sua interpretazione, il viso capace di mille sfumature espressive impallidito dala cipria, la bilanciata perfezione di ogni gesto, lasciarono letteralmente ipnotizzati. Da quella memorabile apparizione, per cui vinse un BAFTA e un Golden Globe, e ricevette una nomination all’Oscar – la prima delle tante – Blanchett ci ha abituati a camaleontiche e superlative interpretazioni: che sia un elfo (nella trilogia del Signore degli Anelli di Peter Jackson) o un uomo (Bob Dylan in I’m Not There di Todd Haines), per lei niente e’ impossibile. Per la parte di Katharine Hepburn in The Aviator di Scorsese, e quella della nevrotica Jasmine in Blue Jasmine di Woody Allen, ha vinto due Oscar (rispettivamente come attrice non-protagonista e protagonista) aggiudicandosi il record di “unica attrice australiana a vincere due statuette.” Insomma Cate e’ un fenomeno di talento, su questo non discute nessuno. Alejandro Gonzalez Inarritu, che l’ha diretta in Babel, l’ha definita “una sorta di alieno”. Eppure quel talento sarebbe potuto andare sprecato. Cresciuta in una famiglia della borghesia di Melbourne, Australia, quando si tratto’ di iscriversi all’universita’ scelse relazioni internazionali. La facolta’ di arte drammatica subentro’ come ripiego. Fosse diventata una diplomatica, senza dubbio avrebbe risolto conflitti e fermato guerre. Invece scelse il palcoscenico: come tutti i grandi, ha le sue radici in teatro, a cui torna volentieri appena puo’. Dal 2007 al 2012 ha assunto la direzione artistica, con il marito, lo sceneggiatore e drammaturgo Andrew Upton, della Sydney Theatre Company. Sulla scena ama le parti sul filo del rasoio, che giocano con le emozioni al limite della follia, come quella di Blanche DuBois in un Tram che si Chiama Desiderio. Sul palcoscenico sceglie la sfida, quando sceglie la parte. Tutto il contrario fuori dal set, dove conduce una esistenza normalissma. E’ una donna di oggi, che coniuga, a volte con fatica, vita familiare e carriera. Madre devota (portava, quando erano piu’ piccoli, i figli Dashiell, Roman e Ignatius con se’ dappertutto), moglie fedele (mai neppure una ombra di scandalo), al contrario di tante sue colleghe “Aussie” ha ancora la sua base in Australia. Sul cote’ pubblico vive la fama senza traumi. Sul tappeto rosso, che calca con la naturalezza di sempre, sfoggia volentieri creazioni di Valentino, McQueen o Galliano. Di una eleganza innata, mai vistosa, e’ a suo agio sia in un severo tailleur maschile che in un barocco abito di haute couture. La sua e’ una bellezza luminosa, regale, ma atipica – a volte antica a volte ultramoderna – ha un incanrato cosi radioso da averle assicurato da anni la campagna di una nota casa di cosmetici. Simpatica, discreta, si muove senza un codazzo di publicist e agenti. Nelle interviste niente atteggiamenti da diva, spiazza piuttosto per la sua sincerita’ e il suo candore. Insomma (si fa per dire) e’ proprio una di noi. God save Queen Cate.
SHARON STONE
Bella, sensuale, decisamente formidabile. Anche nell’impegno sociale. Essenza di una donna intelligente, ben piu’ che fatale.
Dici Sharon Stone, e nonostante da allora abbia interpretato piu’ di 40 film, lavorato con registi come Martin Scorsese, conquistato un Golden Globe come migliore attrice e una nomination all’ Oscar, ti viene irrimediabilmente in mente la scena di Basic Instinct in cui accavallava le gambe. Si catapultava cosi, quando era ancora una giovane attrice della Pennsylvania di origini irlandesi nota per il suo ruolo accanto a Schwarzenegger in Total Recall, a fama planetaria. D’altronde aggiudicarsi il ruolo della avventuriera bisessuale Catherine Tramell, a cui aspiravano celebrita’ del tempo come Michelle Pfeiffer e Geena Davis, non fu solo un colpo di fortuna (sentendo che per il film il regista Paul Verhoeven si sarebbe ispirato a un classico noir di Hitchcock, Stone si trasformo’ in una sosia di Kim Novak) ma una mossa vincente di una carriera studiata come un partita di scacchi, da una donna tenace e ambiziosa, gia’ descritta come “il perfetto connubio fra bellezza, sensualita’, astuzia e determinazione.” Da allora ne ha fatta di strada. Intelligente ben sopra alla media (pare abbia un IQ di 148) ironica, outspoken, e impegnata in cause come quella per i diritti dei gay la lotta all’Aids ( nel 2013 ha ricevuto il Peace Summit Award dalle mani del Dalai Lama), si e’ facilmente sbarazzata della etichetta-cliche’ di femme fatale, conquistandosi una posizione permanente nella storia del cinema. Con un matrimonio alle spalle e tre figli adottivi, e nonostante una salute cagionevole (ha sofferto di un aneurisma nel 2001, di un primo infarto nel 2004, e di un secondo pare la primavera scorsa) oggi e’ ancora splendida e splendente: all’ultimo Festival di Cannes ha sfoggiato trasparenze e spacchi vertiginosi. E a 56 anni compiuti e’ ancora una vera forza della natura, e la dimostrazione vivente che l’eta’ puo’ essere una opinione discutibile. Dopo un periodo lavorativo tiepido, ha recentemente inaugurato un nuovo capitolo, regalandoci una fresca quanto eclettica serie di film. Come Border Run da lei anche co-prodotto, un film di denuncia sul traffico umano alla frontiera statunitense-messicana; Lovelace, dove era la madre della pornostar; Ragazzo D’Oro di Pupi Avati, con Riccardo Scamarcio; e Fading Gigolo, l’ultima fatica di Woody Allen, dove interpreta una dermatologa gay coivolta in un menage a trois. Per stupire, e forse scandalizzare ancora. Formidabile Sharon.