MULTI-LOCAL IDENTITIES
È una caratteristica sempre più diffusa nella generazione dei nativi digitali. Una generazione che viaggia low cost tra couchsurfing, nightswapping e Airbnb, oltre che virtualmente sui social media come Instagram e Snapchat. Sono giovani in fuga dalle identità rigide – soprattutto quelle nazionali o, peggio, nazionalistiche – e insofferenti rispetto ai confini simbolici e metaforici. Che cosa li accomuna? Appaiono geograficamente fluidi. Anzi, di più. Sono postgeografici. E le loro storie, singole e singolari, si ritrovano emblematizzate in quelle di artisti, designer, musicisti e scrittori che, pur non volendo divenire i portavoce di nessun movimento di pensiero o ancor meno di una generazione, hanno vissuto in molti stati diversi e cambiato casa, passaporto, lingua, attività più volte nella vita. Li abbiamo inseguiti, letteralmente, tra un paese e l’altro. E nelle loro parole abbiamo ritrovato il messaggio della loro creatività ibrida, cross-culturale, così come il segno di un’evoluzione della specie in senso sempre più nomade – per opportunità di lavoro, per privilegio (una volta si parlava di globe-trotters), o magari per colpa di disastri ecologici, guerre o persecuzioni politiche. Inevitabile citare la scrittrice Taiye Selasi: in un suo Ted Talk ha infatti inventato il termine “multi-local” per definire coloro che, pur cambiando incessantemente indirizzo, riescono comunque a sentirsi “del posto” nei luoghi in cui vivono appieno le relazioni, i rituali e le eventuali restrizioni della loro biografia. «Mi considero “local” a New York, Accra, Roma e Berlino», ci spiega da una residenza per artisti ad Apaia, in provincia di Pisa, dove sta completando il nuovo romanzo ambientato a Roma che uscirà in autunno. «Sono questi i posti dove scrivo, mangio il cibo che mi piace, vedo le persone che amo. Lì vive la mia famiglia, e la mia famiglia di amici. Lì i bartenders sanno cosa mi piace bere. Lì è dove c’è sempre un letto che mi aspetta». In che modo i viaggi influenzano la sua scrittura? «Nei dettagli. Quando viaggio colleziono impressioni per usarle in seguito. È naturale, per me, scrivere di un posto – anzi, scrivere un posto, reinventarlo – solo dopo che l’ho lasciato. Ma credo che siano le similitudini, più che le differenze, a commuovermi maggiormente. Negli ultimi sei mesi sono stata in Kenya, Germania, Ghana, Stati Uniti, Palestina, Egitto, Israele, Italia, e vi ho trovato una comune umanità. Ho visto le stesse dinamiche madre/figlio gli stessi litigi tra fidanzati, lo stesso bisogno d’amore, sicurezza, dolcezza e dignità. Viaggiare mi convince di ciò che la scrittura ha sempre reso evidente. Per dirla con le parole di Terenzio: “Sono umano. Nulla di umano mi è alieno”». Anche la scrittrice Lila Azam Zanganeh, che parla sette lingue, ha tre passaporti (iraniano,canadese, francese) e, pur avendo base a New York, cambia città quasi ogni mese, sta finendo il suo nuovo romanzo (“A tale for lovers & madmen”). «La mia vera casa? È mobile. E la porto con me nei libri che leggo, nelle parole che scrivo, nell’attenzione che do alla bellezza, ovunque vada». La sua identità non ha a che fare con i passaporti, che considera alla stregua di «documenti falsi». E anche se pensa di aver acquisito le caratteristiche dei paesi in cui è cresciuta, ritiene che la tensione tra elementi divergenti sia positiva, «perché aggiunge profondità, densità e poesia a ogni situazione. Per esempio, nell’interagire con un uomo mi rendo conto di essere prima persiana e poi più francese. Un filosofo iraniano contemporaneo che ammiro molto, Daryush Shayegan, definisce queste coesistenze “identità arlecchino”: nel 21° secolo emergeranno sempre più, arricchendo il mondo con i loro colori, la loro indistinzione, il loro sguardo trans-culturale». Apostolo dell’ibridazione e del nomadismo, il direttore creativo di Diesel Nicola Formichetti si riconosce molto nella cultura di sua madre, quella giapponese, ma vive tra l’Italia e New York, dopo aver fatto base a Londra per molti anni. E mentre ci rivela di avere in programma di trasferirsi a L.A., spiega che il viaggio, per le menti creative, è un’esperienza bellissima. «La maggior parte delle persone che incontriamo, online o nella vita vera, viene da orizzonti diversi. Credo che i social media abbiano davvero cancellato le frontiere e avvicinato la gente. In questo nuovo mondo a cambiare le regole sono proprio quelle persone che, mutando dimora, applicano la loro visione a una nuova tela. In fondo è il modo in cui le diverse culture sono messe insieme che crea la novità.
Gli artisti e i designer lo sanno. Per questo non stanno mai fermi». Lo conferma il musicista rap/jazz/hip-hop, poeta, performer, editore e pittore Ellison Glenn, alias Black Cracker, considerato uno degli artisti più interessanti della scena musicale tedesca. «Tendo a lavorare meglio in movimento. In questo stato fluido, ciò che potrebbe sembrare banale mi appare invece vivido e iridescente». Nato in Alabama da genitori afro-americani, un’infanzia trascorsa in basi militari in Texas, Germania e New Jersey (la madre lavorava per l’esercito), dopo aver studiato a Memphis e New York, oggi Black Cracker divide il suo tempo fra Losanna, Parigi e Berlino, perché «non voglio farmi sparare in modo casuale dalla polizia», ci dice con graffiante ironia, riferendosi agli incidenti riguardanti persone di colore negli Usa. «Ho sempre vissuto in modo transitorio: è un elemento integrante di ciò che sono. Una sede stabile può essere una prigione o addirittura una pietra tombale. Credo che molti dei mali che affliggono oggi gli States, per esempio, potrebbero essere alleviati se più gente visitasse un altro stato, paese o continente». Un’esistenza itinerante è anche quella dell’artista Tarik Kiswanson, perfetto rappresentante della generazione no-borders. Nato ad Halmstad in Svezia da genitori palestinesi, dopo cinque anni alla Saint Martins di Londra, un master alla École nationale supérieure des Beaux-Arts a Parigi e un periodo tra Londra e Roma, oggi vive fra Parigi e New York dove è resident all’International Studio and Curatorial Program di Brooklyn. «Non ho mai provato i sentimenti di appartenenza legati al concetto di nazionalità. Anche se osservo la mia eredità culturale, spesso al centro della mia ricerca, con interesse e rispetto, è per me una sensazione liberatoria e rassicurante sapere che quello che mi rende ciò che sono oggi nasce dal presente e non dal passato. Credo che tanti giovani della mia generazione siano meno attaccati alla vecchia idea di nazionalità e a ciò che evoca». Anche nei suoi lavori (che mostra in una personale al Centre d’Art Contemporain La Halle des bouchers di Vienne, dall’8 settembre) l’artista proietta la visione di un mondo in transizione. «Crescendo nel sud della Svezia negli anni ’80 e ’90 sono stato molto consapevole della differenza tra il mio patrimonio culturale e quello degli altri. Il mio lavoro esplora diversi stati di esistenza in between. Il mondo di oggi è in continuo movimento ed è probabilmente quello che mi interessa di più». Obbligatorio chiedersi come affronta la domanda: “Di dove sei?”. «Difficile rispondere, nella società moderna. I’m from everywhere and nowhere at the same time».